In Italia la battaglia sull’attribuzione del cognome materno è iniziata molto tempo fa, quando nel 1979 l‘avvocata Maria Magni Noya presentò la prima proposta di legge in materia dopo essersi battuta sia per la legge sul divorzio (1970) che per l’attuale diritto di famiglia (1975).

Un’attivista e punto di riferimento sull’argomento, fin dal 1979, è Iole Natoli che seguo da tantissimi anni e che ho citato, con i suoi studi, anche nel mio breve saggio Chi ha paura del gender? Pubblicato nel 2015.

Nel 2016, con sentenza n. 286, la Corte Costituzionale aveva aveva stabilito la possibilità di dare a figlie e figli il doppio cognome – materno e paterno – a condizione che i genitori fossero d’accordo e con il cognome materno posto sempre dopo quello paterno e, comunque, solo come alternativa a richiesta rispetto all’attribuzione automatica del cognome paterno alla prole.

Di recente, nel febbraio 2021 con ordinanza n. 18, la Consulta aveva sollevato dubbi sulla costituzionalità della norma che prevede l’automatica assegnazione del cognome paterno ricordando che, già nel 2016, con proprio atto aveva espressamente riconosciuto che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Ieri la stessa Corte Costituzionale ha esaminato la questione dichiarandone la incostituzionalità.

In tutta Europa, e non solo, la prole riceve il cognome dei genitori (ma anche altro appositamente scelto come in Inghilterra) con ampio rispetto sia della madre che del padre mentre in Italia il parlamento, malgrado le numerose proposte di legge esistenti, ancora non riesce a legiferare in merito.

Sono sei le proposte di legge giacenti presso Camera e Senato e, lo scorso 15 febbraio, è stata finalmente avviata la discussione nella Commissione Giustizia del Senato e speriamo, alla luce della decisione di ieri (27 aprile 2022) della Corte Costituzionale, che si arrivi presto ad una formulazione e approvazione che si attende da oltre 50 anni.

Se vogliamo realizzare una democrazia piena e, quindi, paritaria, dobbiamo iniziare dalla famiglia compiendo il percorso paritario tra i due cogniugi sancito dal diritto di famiglia nel 1975 che ha restituito dignità alle donne nell’ambito del matrimonio.

Sono convinta che i genitori non sono coloro che contribuiscono al patrimonio genetico della prole ma sono coloro che crescono le figlie ed i figli e che, in modo paritario, provvedono all’accudimento, al mantenimento e all’educazione.

La decisione della Corte Costituzionale segna un importante passo in direzione della riforma e costringe la politica ad assumere la responsabilità di licenziare al più presto una legge (le proposte in giacenza sono molto simili tra di loro) perché, altrimenti, ad ogni disaccordo tra i genitori sulle attribuzioni dei cognomi si tradurrebbe in ricorsi d’urgenza presso i Tribunali.

Ciò che rende ancora più urgente una definizione legislativa in merito sono le affermazioni delle parti politiche che manifestano la loro contrarietà. Alcuni, come sempre davanti alla richiesta di riconoscimenti di diritti continuano a sostenere che altre sono le urgenze come se la società si debba basare soltato su temi economici e i diritti debbano essere sempre in secondo piano.

Le affermazioni di altri sono ancora più disarmanti e, per chi come me si spende a parlare di rispetto e parità alle giovani generazioni, sono estremamente pericolose ed evidenziano la miopia da cui sono affetti molti politici come nel caso di Fabio Rampelli (vicepresidente della Camera in forza FdI) che ha affermato: “È bene invece contestualizzare il senso del cognome paterno … Conferire il cognome del padre era per il figlio e per la donna una garanzia di riconoscimento di diritti, compresi quelli legati all’eredità, quindi garanzie patrimoniali”.

La miopia, o malafede, di questi politici non permette loro di ammettere che, se la società è finalmente cambiata, è necessario cambiare la legge!