Ci troviamo in un piccolo ristorantino in montagna, caldo e accogliente, con quei menù caserecci che riscaldano l’ animo solo a pensarli. La sala è piccolina, affollata. Ci sono diversi tavoli tra cui noi, un tavolo di giovani amici, una famiglia con nonni, un paio di coppie, due famiglie giovani con rispettivi figli maschi di quattro anni circa. Purtroppo il rumore è tanto, e gran parte proviene dal tavolo di questi ultimi, dove i bambini giocano tra loro urlando con pupazzetti-dinosauro e i genitori, visibilmente stanchi, li richiamano spesso, sempre più esasperati, a stare un po’ più calmi. Samu (15 mesi) dopo essersi mangiato tranquillo e beato lenticchie, polenta, tortellini e polpette varie, un po’ pienotto decide di giocare con la sua bambola “Biba” ai piedi del tavolo.

Premetto che Biba, al momento, è la sua amica inseparabile. Quando l’ha vista entrare in casa (regalo di seconda mano del suo cuginetto) l’ha accolta con slanci di affetto, baci e coccole, manco avesse una sorellina vera. Samu gioca con tutto: macchinine, palla (parecchio, con il sorriso compiaciuto del papà che lo immagina nella giovanile della Roma 😂), libri, incastri, costruzioni, mollette, tappi di ogni tipo, pentoline (ah, speriamo che cucinerà meglio della mamma!), nascondino e giochi fisici vari, strumenti e tanti tanti pupazzi di cui fa già le vocine. Insomma è un bambino normale, con giochi normali, di ogni tipo. Ma Biba è qualcosa di più: la coccola, la imbocca, ci guarda “cambiarla” se si sporca, “dargli la medicina” se sta male, misurargli la febbre. Grazie al gioco con Biba e Lillo si è lasciato mettere un cerotto senza troppi pianti. (N.B. Lillo è un coniglio rosso, il suo preferito prima dell’ arrivo di Biba) Spesso la portiamo in giro, al parco e sul passeggino con lui.

Mentre giocava tranquillo si avvicinano questi due bimbi incuriositi. “Ma ha una bambola?” “Ma è da femmina!” Risatine. Intervento mio: “La bambola è una bimba, si chiama Biba. E tu che hai lì? Che bello, l’ orologio di Spider Man! Su bimbi avvicinatevi, giocate con quello che volete” “Guarda la mia macchinina! Brum! Questo questo! Guarda il mostroooo aaaaahhhh” (urlo). A questo punto intervengono le mamme: “Su bimbi, così lo spaventate, è piccolo, fate piano” “Quanto ha? Carino, come si chiama?” Io, scandendo bene: “Samuele” “Ah, ma non è una femmina!” L’altra mamma imbarazzata tenta di recuperare: “Ma no, la bambola è femmina!” Nel frattempo i due bimbi continuano a urlare e giocare “ai mostri” Samu, incuriosito e per niente spaventato, si alza, li insegue e comincia a imitarli facendo urletti anche lui. I bimbi scappano, ridacchiano, lo spintonano. Nuovo richiamo delle mamme, sempre più imbarazzate. “Eh scusi, è che quattro anni è un’ età difficile, poi vedrà anche lei…” Silenzio mio. Mi rivolgo di nuovo ai bimbi. “Dai bimbi, voi che siete grandi potete insegnare qualcosa a lui?” “Sì si ti insegno io! Quello è un gioco da femmina. Ti insegno questa parola: F-E-M-M-I-N-A”

A questo punto, porto via Samu con una scusa banale. Devo dire che l’ espressione di quel bimbo mentre pronunciava la parola “femmina” tra il disgusto e la rabbia, è la cosa che mi ha più sconvolto. Non c’entrano l’educazione, le “buone maniere”, essere grandi o piccoli.

Qui ancora una volta c’entra il patriarcato e la sua violenza tossica, in primis sui bambini. Le prime vittime sono infatti i bambini maschi, incitati perlopiù a fare giochi dove si urla e si mena, e quei giochi che noi sappiamo essere la base della crescita e dell’apprendimento relazionale, sono ripetuti tra di loro, rendendoli sempre un passo indietro rispetto all’espressione della vasta gamma emotiva, della gestione del contatto fisico, dell’uso del linguaggio e dell’immaginazione e di tutte quelle abilità sociali che serviranno a scuola come da grandi.

Già, da grandi. “Le femmine sono più brave a parlare, i maschi sono più bravi….”(a che, non mi ricordo?) Non è vero niente. I bimbi tutti imparano tutto ed in eguale misura a prescindere dal loro sesso biologico. Ed imparano perlopiù per imitazione di noi adulti (cosa che mi sconvolge e mi terrorizza ogni giorno).

Mi dispiace tanto per i maschi. Mi dispiace che fin da piccoli siano così limitati e castrati nell’espressione del loro mondo emotivo. Mi dispiace che si pensi “strano” il gioco con una bambola. Mi fa incavolare che ci sia ancora bisogno di lottare per ribadire l’importanza di una educazione alla parità di genere fin da piccoli. Mi dispiace di dover sempre ribadire l’ovvio, e cioè che quel bambino che gioca con la bambola, non imparerà a “essere femmina” (cosa che non si impara dall’ambiente) ma, male che va, imparerà a prendersi cura di qualcuno, ad esprimere l’affetto senza inibizioni, ad essere, magari un giorno, un amante, un fidanzato o un padre amorevole.

Mi dispiace che le vittime del patriarcato siano sempre, per primi, i maschi stessi. Che poi da grandi, se va bene, si accorgono che qualcosa non va e vengono nella stanza di terapia, a volte, a cercare un sano equilibrio tra pensieri e vissuti come: “La amo troppo – non posso pensare di vivere senza di lei – non sopporto che esca con le amiche – non riesco a dire ti amo – non so come farle capire che ci tengo -s ono scappato da lei perché avevo paura di amare troppo – mi vergogno – non posso farmi vedere che piango – eccetera etcetera….. ”

Samu è fortunato. Ma non per me, che attacco i pippolotti, ma per avere un papà amorevole e sensibile, che legge e che cucina meglio di me. E che, malgrado la licenza poetica, non ha nessuna intenzione di iscrivere il figlio a una scuola calcio. (Oh, a meno che la Roma non insista eh!).

Scritto da Valentina Virgili, mamma e psicoterapeuta che mi ha gentilmente prestato il suo racconto di vita vissuta.