Ogni 8 marzo, quello che detesto di questa giornata sono gli auguri che arrivano da ogni dove a voler sottolineare un momento di festa…ma quale festa?!?

Oggi sono cento anni che si celebra la giornata internazionale della donna (per conoscerne la storia ne ho già scritto qui) che non è una festa (non smetterò mai di ripeterlo) ma una giornata in cui si riflette sulla condizione delle donne, su quanto è stato fatto e su quanto ancora c’è da fare per realizzare una piena parità tra le quasi 8 miliardi di persone che popolano il mondo.

Sono tantissimi i passi avanti fatti come la conquista del diritto attivo e passivo di voto, un diritto di famiglia che riconosce le donne alla pari degli uomini, l’accesso alla magistratura, il riconoscimento della violenza sessuale quale reato contro la persona, il congedo parentale condiviso tra i genitori.

Su tante questioni vogliono farci tornare indietro cercano di ricacciare le donne in ruoli stereotipati e l’aspetto che trovo più grave è l’accettazione incondizionata di certe affermazioni da parte di donne a cui non siamo state capaci di trasmettere le faticose conquiste di questi anni.

Tantissimo c’è da fare a dimostrazione che l’8 marzo non è una festa ma una data simbolicamente di ripartenza per le donne e gli uomini che credono in un cambiamento paritario della società tale da dare senso compiuto all’agire di ogni giorno.

Eppure, non ultimo ieri a proposito del messaggio distorto dato una donna dal palco di Sanremo, ci siamo sentite rispondere che non sono queste le cose importanti, che l’utilizzo della lingua non è importante e chi lo sostiene spesso è, invece, concentrato sull’italianità a tutti i costi.

Bene, parliamo di italianità, parliamo dell’Italia e usiamo come guida i principi fondamentali della nostra carta costituzionale.

L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro ma, malgrado le donne laureate siano il 22,4% mentre gli uomini il 16,8% il tasso di occupazione femminile è del 56,1% mentre quello maschile è del 76,8%. Ogni ora 50 persone perdono il lavoro e il 98% di queste sono donne. Le donne che lavorano, a parità di contratto e condizioni, guadagnano dal 20% al 35% in meno dei colleghi maschi. Guardando alle posizioni dirigenziali solo il 18% sono destinati a donne e, negli ultimi 10 anni, la crescita è stata solo dello 0,3%.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo ma ogni tre giorni in Italia una donna viene uccisa per mano di un uomo. Il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. La promozione dell’uguaglianza di genere è fondamentale soltanto per circa un quarto degli italiani.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge ma in 75 anni le donne al governo sono state appena il 6,5% e le donne elette nel Parlamento sono solo il 34% e nell’attuale governo la presenza femminile che sfiora il 33%. Nei Consigli di Regione e delle Province autonome italiane le donne elette sono circa il 21%. Mai nessuna donna è stata Capo dello Stato, Presidente del Consiglio oppure a capo di un ministero economico.

È stato calcolato che, per raggiungere un’effettiva parità in Italia ci vorranno almeno 60 anni.

Perché accade tutto questo?

Come ho più volte detto, c’è stato un mancato passaggio di testimone e questo ha portato ad un abbassamento della guardia, ad una disattenzione e ad un maschilismo di ritorno nelle nuove generazioni e, soprattutto, c’è un profondo problema culturale.

Ho già scritto qui ritengo prioritaria una maggiore presenza delle donne nei luoghi in cui si decide perché la democrazia paritaria è fondamentale prevedendo che donne e uomini lavorino insieme per la costruzione di una società più giusta.

Inoltre molte donne, e la maggioranza degli uomini, continuano a pensare in modo patriarcale, a perseguire le modalità di confronto che sono rimaste ancorate a stereotipi e precomprensioni senza evolvere con il modificarsi dei tempi e dei grandi cambiamenti che ha registrato l’umanità.

Allora ciò che è importante fare è proprio scardinare questo modo di pensare, modificare i percorsi automatici delle nostre sinapsi che traducono in parole il nostro sentire e il nostro pensare prima ancora di averne consapevolezza.

Anche su questo argomento ho detto e scritto spesso ma, evidentemente, non basta mai perché quello del linguaggio è un argomento che desta reazioni incontrollate, di donne e uomini, e tentativi di rendere ridicolo quanto viene proposto.

Gli aspetti sono due e sono legati alle nostre radici ed al nostro presente.

Le radici dell’italiano le troviamo nel latino e, poiché in italiano non esiste il neutro, la formazione del genere nei sostantivi segue le stesse regole del latino per cui abbiamo termini che vanno declinati al femminile e al maschile mentre altri che non si declinano e che si distinguono solo con l’utilizzo dell’articolo femminile o maschile. Si tratta di regole semplici e che solo in alcuni casi vengono prontamente applicate.

Il presente sono le nuove frontiere lavorative e professionali con le donne che si sono affacciate a tutte quelle attività che erano considerate prerogativa maschile e che venivano declinate esclusivamente al maschile ma, anche, con alcuni uomini che si sono dedicati a professioni tipicamente femminili.

Mi preme ricordare come, nel caso di uomini che hanno intrapreso professioni femminili, ci sia stata subito la declinazione corretta così è stato, per gli ostetrici (maschile di ostetriche) o modificando i nomi come quando le maestre giardiniere sono state rinominate in maestre d’infanzia per evitare equivoci e questo è avvenuto anche gli uomini si sono affacciati a questa professione chiamandosi maestri d’infanzia.

Per quanto alla declinazione al femminile di molte professioni ritenute “importanti” o di “valore” c’è ancora tanta resistenza a partire, purtroppo, dalle donne che temono di sminuire il loro ruolo facendosi riconoscere come donne e cade nel trabocchetto delle competenze che vengono tirate in ballo sempre parlando di donne.

Certamente ogni persona può scegliere di farsi chiamare come preferisce ma va precisato che la professionalità non dipende dal genere (nel senso che non esiste un genere portatore della professionalità) e che la grammatica, come la matematica, non è un’opinione ma il risultato di precise regole e, pertanto, il femminile e d il maschile vanno utilizzati in modo proprio.

Certamente modificare il linguaggio è fatica, implica un lavoro profondo sul proprio modo di pensare e di specchiarsi nella realtà e ricerca dei vocaboli più appropriati, richiede lavoro esattamente come ogni cambiamento.

Personalmente, per esempio, trovo l’utilizzo dell’asterisco una scorciatoia che non aiuta e che, piuttosto, rallenta il cambiamento perché no ne consente la sedimentazione. La lingua italiana è ricchissima di termini che possono essere usati come alternativa, ci è stata indicata questa via già nel 987 Alma Sabatini che suggerì “alternative compatibili con il sistema della lingua italiana per evitare alcune forme sessiste”.

A questo proposito mi cito dalla mia breve pubblicazione Chi ha paura del gender? pubblicato nel 2015 in cui ho scritto:

Quando non nominiamo un genere, ritenendolo ricompreso nell’altro, come nel caso dei termini “uomo” o “uomini” usati in modo universale tendiamo a sminuire/cancellare la presenza/esistenza delle donne. Dovremmo, invece, imparare ad utilizzare il termine umanità.

La lingua italiana prevede, in caso di platee, l’uso del genere predominante per rivolgersi a quanti ascoltano (se avessi usato il termine ascoltatori avrei dato per scontata la prevalenza di maschi). Eppure viene sempre utilizzato il maschile anche quando la platea è composta da ascoltatrici.

Sbagliamo anche quando sentiamo il bisogno di rafforzare un termine che utilizziamo: non serve dire “la Giudice donna” perché abbiamo già usato l’articolo femminile.

Perché diciamo “la donna deve essere pari all’uomo” e non “l’uomo deve essere pari alla donna”?

La scelta di utilizzare come primo termine di paragone sempre quello maschile è specchio di un meccanismo mentale che ci porta a considerare un genere prevalente sull’altro.

La grammatica, infatti, c’insegna che i due termini di paragone non hanno lo stesso valore e che uno è di riferimento (predominante) rispetto all’altro.

Cambiare il linguaggio significa modificare il modo di pensare ed operare una vera e propria rivoluzione culturale.

Buona rivoluzione culturale alle donne e agli uomini che vogliono credere nel cambiamento!